il modulo fotografico così come è stato recepito in Italia dall'iper realismo tedesco Stefano Lustri accoglie con spirito di racconto, simbolico, e sottrae alle durezze del trapasso meccanico.
Ed effettivamente in "figura senza volto n.1" egli riesce a dare un equivalente della pittura tonale, tutta consumata nei bianchi e neri e grigi, senza che la tecnica fotografia o della proiezione del riporto gli prenda la mano. Penso che quando l'artista avrà trovato un "mondo", in esso saprà meglio fisionomizzare le sue qualità, che non sono affatto soltanto di puro contenuto.
Marcello Venturoli
[. . .] Che valore ha un frammento se non viene studiato, se non viene trovato il suo uso, il suo significato?
Un magazzino vuoto, un manichino gentile e nudo, hanno perso il motivo di esistenza se considerati fuori di un negozio; ma in un magazzino che del negozio ha solo lo scheletro, e che è vissuto come
tale solo per un protagonista, chiedono e stimolano a chiedersi il motivo della continuazione nella realtà, ed è così che si possono immaginare in un mondo alternativo ove, anche se non trovano una collocazione razionale, diventano sorgente di nuova vita.
Ma per poter portare fuori dall'animo dei protagonisti gli inquietanti interrogativi che essi sprigionano non basterebbe una trasposizione in blocco di tutti gli elementi menzionati, ma una nuova collocazione
per ripresentarli, ma sic et simpliciter. E per tal modo si inseriscono ospiti - personaggio, che adesso, con un fare da archeologi e non da compratori, formulano l'ipotesi su quello che avrebbe potuto significare per i proprietari l’uno o l'altro oggetto; allora, con una specie di infantilità tutta protesa alla critica verso un certo tipo di esistenza, inizia il processo di assimilazione esperienze, che modificano le precedenti, e l’utilizzazione creativa delle nuove acquisizioni per un ulteriore apprendimento, e prende via il gioco.
Le casse abitualmente di legno vengono verniciate d’oro, gli scaffali d’argento, e le pareti si colorano di porpora per lasciare passare le enormi frecce - itinerario a fiori metallici; e la ragazza che per scherzo stava cercando di capire se sarebbe riuscita ad entrare dentro quella cassa è diventata un attimo impresso sulla tela con il titolo “amore conservato in una cassa d’oro”
Augusto Lippa - Dal catalogo del Trentesimo Premio Michetti (31 Luglio - 29 Agosto 1976)
È ormai accertato che il realismo non è affatto una categoria stilistica univoca; si pub parlare della realtà, infatti, in tanti modi diversi, addirittura opposti. Il realismo italiano, pur così vivo negli anni del dopoguerra, non ha ancora esaurito il tema, tanto che molti giovani continuano tale filone apportando sempre nuove esperienze e giungendo a nuovi risultati.
Sebbene giovanissimo, Stefano Lustri ha voluto imboccare questa difficile strada sin dai suoi primi approcci con la produzione artistica, quando cominciò col presentare I'oggetto vivo, reale, cronachistico quasi; in definitiva un primo legame con la realtà di cui definiva minuziosamente gli aspetti figurativi.
Ma tale impegno, pur necessario come primo gradino, non poteva soddisfarlo a lungo; ecco, pertanto, che, ed è bello parlare di evoluzione in un giovanissimo, Lustri lascia l'oggetto in se stesso e comincia ad interessarsi della “oggettività”, cioè dell'oggetto implicato come autore, dell'oggetto che “sottopone ed è sottoposto”.
Giunge, così, traumatizzato da una società che consuma impietosamente tutto, a cogliere quegli aspetti che ormai sfuggono all'uomo comune, frammenti insignificanti all’apparenza che, però, dal intervento cosciente e dalI1intenzione delI1artista vengono resi significanti, l'oggetto che non viene mai analizzato, anche se onnipresente in tutte le forme ed i momenti della vita, perché deve essere
consumato in fretta, e, allorquando lo è stato, deve essere buttato via, merce, ormai senza valore.
Ma se degli iperrealisti caratteristica essenziale è la causalità della scelta dei soggetti, l'attenzione minuziosa a dei particolari attinti un pò dovunque, Stefano Lustri vuole una propria strada, una propria fisionomia, discostandosi da ideologie già segnate e ponendo alla radice della sua pittura un personale, esclusivo micro-mondo; un mondo, ormai “buttato via”, fatto di vecchie cose, ormai inutilizzate,
scomparso, deformato, lontano dalla sua realtà iniziale e, perciò, ormai fatto di enorme vuoto, ma ripensato e rivissuto. Naturalmente questa distruzione dell'ambiente lo porta a delle conseguenze angosciose; questo « teatro » una volta vivente, ora abbattuto,
defalcato, genera risonanze con la realtà interna dell’artista; e proprio da questa lieson tra realtà esterna ormai morta e realtà interna presente, vivida, pressante nascono i quadri di Stefano Lustri che ripropongono e fanno rivivere perciò oggetti, una volta con una funzione precisa, oggi inutilizzati, che figurativamente si propongono come demistificanti.
Ecco, allora, oggetti dei suoi quadri, la scala che serve per “salire” verso nulla; a cassa di imballaggio riproposta come un enorme scheletro vuoto all'interno della quale è possibile inserire qualunque cosa, adesso che non serve più a nulla; gli uccellacci che non hanno più neanche valore ecologico ed anche essi sono ospiti già morti come tutti gli altri oggetti, in un mondo “crollato”, in un ambiente assurdo, ermetico, in cui anche l'ecologia è fallita, non si può certo permettere all'uccello che un valore post-ecologico; l'oro che, avendo perso il valore concettuale di “super-bello”, è esso pure oggetto concreto buttato li sulla tela e finalmente, brama ormai soddisfatta, concesso all'uomo, naturalmente col negativo risvolto emblematico della dannazione; le frecce itineranti che, oggettivate appunto con I'oro o con altro materiale generalmente ritenuto prezioso, sono, appunto in un mondo “crollato”, sballate, fuorvianti.
Tutti questi “oggetti”, accomunati in un contesto risultante non abituale, creano, logicamente, una frattura tra il singolo oggetto e la globale immagine del quadro e conducono l'osservatore di fronte all'ignoto, all'assurdo, lo privano di “un codice preciso di riferimenti e di comportamenti” tanto da indurlo a fermarsi.
La finzione e il suo doppio.
Lo spazio entro cui lavora il giovanissimo Lustri è due volte finto: quello della tela e quello del luogo, preventivamente costruito dall'artista prima di dipingerlo, in cui egli colloca i propri modelli. Un'operazione, quindi, la sua, fondata sull'ideologia dell'artificio precostituito e plateale. Per Lustri non esiste la natura, ma solo la sua modificazione, la sua messa in opera registica in una dimensione illusoria che però, fin dalla partenza, svela senza doppiezze i propri strumenti, il percorso del suo montaggio e smontaggio: atto creativo e atto critico si identificano nel segno del work in progress: come, poniamo, in un film che anziché nascondere esibisca treatment e la sceneggiatura, il doppiaggio, il sonoro ecc., in un'orbita di ambiguità neomanieristica connotata da quello, si direbbe, che Ulrich Leo chiama <<stile condizionale dell’angoscia>>.
In effetti, in questi quadri si respira un'aria piuttosto tetra, malgrado il ghigno perfino sarcastico che li caratterizza. I personaggi - uomo o donna - che vi si trovano non perchè casualmente colti dall'occhio dell'artista, ma in seguito a un'intenzione esplicitata teatralmente da una sorta di rituale, di evidente messinscena, sono certamente perduti in un labirinto che, pur se di dimensioni assai esigue, non è tuttavia meno ingannevole e perfido. Fatto sta che il labirinto è dentro di loro, e a disegnarlo sono i loro gesti, la loro accademica e giocosa liturgia. Qui si sta animando in chiave <<seriosa>> recitata e quindi sottilmente dissacratoria, un certo numero di atti e parabole fondamentali della nostra cultura: la vestizione, l'incoronazione, l'episodio di Lazzaro, l'allusione al sarcofago, la boria gaglioffa di un pirgopolinice in elmo chiodato ...
Insomma, questa serie di dipinti funziona come metafora della prigionia. Ne realizza il calco grottesco e lo mette in museo. Del resto, tutto ciò che compone la buffa, polverosa e improbabile scenografia di questa pièce immobile e iperbolica, ha sapore di cianfrusaglia, di stolta rigatteria, di mercato delle pulci. La mistificazione denuncia se stessa, però, e lo fa con una sfacciataggine senza complessi: nel senso che, chiaramente tutto è ricostruito in studio.
La finzione così afferma il proprio diritto alla totalità dei significati, e esalta le molte maschere di un'incongruenza del quotidiano più trito e perento, sotto il segno della sospensione onirica, del gioco e dell'eros. Le scatole, le bambole, gli uccelli impagliati, il sudario, le gabbie, l'ombrello che allude al più consumato Lautréamont delle citazioni scolastiche, i solidi geometrici che alludono al più sdato De Chirico metafisico riflettono lucidamente l'impossibilità che Lustri avverte di restituire oggi il dramma attraverso lo Stile Drammatico: affermando al contrario, in quanto cianfrusaglia simbolica da cella e cubicolo, e in fondodella disarmonia prestabilita, il valore liberatori dell'ironia e del riso. In effetti, la .tragedia. che si rappresenta in questi dipinti di così precoce consapevolezza, è una tragedia comica: meglio ancora, l'allegoria di una tragicommedia.
Che Lustri lo sappia benissimo lo mostra, tra l'altro, quasi a mo' di didascalia, l'espressione invariabilmente smarrita e divertita dei suoi modelli umani, i quali non aspirano certo alla dignità di personaggi. La loro più vera.
esistenza è nell'acuto irrealismo con cui recitano la loro parte e da cui sempre, brechtianamente, prendono le distanze senza immedesimarvisi. A conferma di ciò, si veda sul piano iconografico l'aggressione che il pittore esercita sull'immagine: che è sempre profilata o obliqua, senza mezzi termini, quasi a scandire perentoriamente la funzione di un’ambiguità irrisolvibile, se non in termini di secca scansione figurativa, con spazi tagliati a linee perpendicolari, a spigoli, a cuspidi, e un cromatismo di grigio dominante e di nero e bianco di lividore metallico, si direbbe di opachi allumini, che esclude quasi sistematicamente i timbri più squillanti della tavolozza. La formula più banale per definire questo primo interessante risultato della ricerca di Lustri potrebbe essere quella di realismo magico: ma poi ci si accorge che anch'essa risulta insufficiente a spiegare sinteticamente l'interesse che il giovane pittore dimostra per la demistificazione degli istituti costrittivi del potere e, in definitiva, per la storia problematica dell'oggi.
Allora, la sua simbologia dell'assurdo si determina come piccolo arsenale dell'avversione e del rifiuto, e quella sorta di liturgia medianica e di dilettantesco (perché volutamente mimato e impoverito) rituale alchemico,funziona aspramente come rimando intellettuale e pittorico all'altra libera vita che ci è stata sottratta, dicendo che, anche in presenza dell’Osceno Uccello della Notte, non si deve smettere di sbendare la mummia. Perché la mummia si muove.
Il giovanissimo Stefano Lustri (Capistrello – L’Aquila 1953) che allestisce la sua prima personale romana alla Trifalco lucidamente introdotto da Mario Lunetta, ha un singolare modo di procedere nel proprio lavoro. Costruisce e arreda nello studio uno spazio scenografo con relativo modello-attore che poi fotografa; in un secondo tempo sulla base di questa documentazione fotografica, aiutandosi parzialmente con il proiettore dipinge delle tele a grandezza naturale. Lustri evade dunque l’impatto diretto con il mondo esteriore, non cerca l’avventura del quotidiano, è indifferente alla natura preferendo creare artificialmente, in vitro, una sfera di azione di cui è l’assolto de3miurgo e regista. Il modello, opposto a quello mondano e fenomenologico della presenza, è quello della assenza, dove si ripercorre il “già fatto” dove si attinge al museo, pur attraverso un grande variare di proposte e di combinazioni. Quadri ermetici caratterizzati da un clima figée, senza possibili soluzioni dato che presto ci accorgiamo anche il mistero fa parte di un gioco, di un sottile artificio che non manca di un risvolto ironico. Un “gioco per ingannare il tempo” per evadere da una monotona piazzetta per “viaggiare nel nulla” sprofondando nel deposito inesauribile della immaginazione e dell’arbitrio. Ma pure in questo suo giocare alle belle statuine servendosi dei più vari stereotipi. Lustri riesce a dissacrare, come ben osserva Lunetta, “un certo numero di atti e parabole fondamentali della nostra cultura”.
Poco più che ventenne, Stefano Lustri, un giovane di Capitrello, ha ordinato una mostra personale con non molte opere, ma tutte di grande formato, alla Galleria di Ponterosso di Pescara.
Dichiaratamente simbolico, oscilla fra la divertita ironia delle cose del mondo e il senso tragico del quotidiano, della vita.
Alcuni momenti narrativi assumono il piglio, la cadenza di un atto liberatorio, mirando al significato totale (contenutistico e formale) delle scelte.
In concreto, si recuperano anche strutture linguistiche anteriori (dall'Iperrealismo alla Metafisica), operandovi una sintesi che in un modo o nell'altro possa servire a rilevare tempi e aspetti della società contemporanea, delle mitologie del nostro tempo.
Nitide squadrature geometriche si alternano a un preciso rilievo plastico, scandendo in profondità lo spazio dell'immagine; uno spazio che in genere ha lo stesso significato di una scena teatrale, dove il personaggio (uomo o donna non importa) è chiamato a svolgere un ruolo definito.
Dalla Rivista Oggi e domani - Pescara Marzo 1977
in occasione della mostra personale alla Galleria Ponterosso 12 / 24 Marzo 1977
Pur così giovane, Stefano Lustri è già perfettamente dentro la storia della nostra arte figurativa recente. Ci è dentro non solo o non tanto per i rimandi ai quali la sua pittura apre le porte o comunque fa pensare, di primo acchito, ma per una ragione più interna, che è tale da sorprendere, da suscitare addirittura disagio.
La triste meraviglia è che si possa, ed anzi si debba, essere già tanto compresi di consapevolezza circa le cose dell'esistenza ad una età che si sarebbe detta più idonea a saggiarsi su un più sereno processo di maturazione, libero dalle urgenze e, si direbbe, dalla stringente necessità di consapevolezza che oggi assai per tempo si richiede. Lustri dà a vedere di sapere già molto della storia dell'uomo. Sa che non deve lasciarsene incantare in ordine ad una sua eventuale lettura in chiave positiva, cioè come paradigma per un da farsi che si apra ad un qualche ottimismo. La realtà è inganno, la norma è stata sempre chiamata in causa perben precisi interessi, ad uso dei grandi manipolatori. L'arte perciò, se sta alle regole, se accetta la realtà quale riferimento comparativo, rischia la connivenza, mostrando di accettare il sistema.
Come andrà fruita, allora, la realtà presente, che è un dato di fatto, che c'è e che non è possibile ignorare, da parte di chi, pur non intendendo lasciarsene condizionare, abbia capito però l'inutilità dell'opposizione frontale, che si destina a farsi comodo bersaglio della repressione? E quale potrà essere il ruolo dell'artista che non accetti la linea del disimpegno evasivo?
Lustri ha incorporato questo complesso retroterra di sottintesi e di problematiche, uscendone per una via che si direbbe ironica se non portasse i segni allucinanti della tragedia, della disperazione. I1 rifiuto è totale, ma si guardi con quanta meticolosa pazienza ne viene esposta l'ideologia, allegorica ed allusiva, paradossale e intanto verosimile. Caricandosi di una simbologia magica ma di evidente carattere esorcistico, speculare di quel misto di fanatismo e di superstizione di cui si mostra intrisa una certa cultura, le sue tele indicano una singolare ipotesi di itinerario alternativo, in cui il viaggiatore è sempre vittima: sia che siadegui alla sua condizione di viandante cieco, costretto in una direzione obbligata, sia che si mascheri pateticamente da combattente, illuso di possedere le armi idonee a salvaguardare il suo viaggio e amministrarselo.
Ma si capisce che non c'è scampo. I1 veicolo stesso, nonostante le sue dorature e la tragicomica dotazione di tutto il necessario per una navigazione sicura, è e rimane una gabbia, una gabbia d'imballaggio col cartellinodell'indirizzo ben visibile, per una destinazione che non si sa come possa essere stata scelta dal viaggiatore, anzi dalla merce (sia pure umana) viaggiante.
Che queste figure umane, tenute di proposito su tonalità cromatiche che nulla hanno del colore naturale della carnagione e che hanno piuttosto la lividità flaccida di un materiale plastico, si fascino di lunghi bendaggi è ancora emblematico. Resta tuttavia l'interrogativo: se dalla mummia si stia adesso liberando l'uomo, l'uomo vivo artefice della propria resurrezione, o se al contrario sia qui che incominci la sua mummificazione, la degradazione di un ruolo che egli non abbia saputo intendere.
Giuseppe Rosato.
Mostra personale: Mummia porto assegnato - Centro d'arte Il duomo. Avezzano, 14-29 gennaio 1978, catalogo.
Ora, e non soltanto per evitare il rischio implicito nelle catalogazioni, conviene piuttosto esaminare l'opera direttamente, partendo dal tema che la sorregge: il viaggio. Analisi del viaggio, dai preparativi alla direzione obbligata, dalla destinazione nel nulla (destinazione scandita da tappe - pause) alla sorpresa all'arrivo.
Già il tema del viaggio è intrigante e simbolico, in quanto il “viaggio” suggerisce l'idea dello spostamento, dei trasferimento da un luogo ad un altro (della mutazione d'ambiente e di stato), il percorso - anche - attraverso tempi diversi.
Altrettanto intrigante appare il ritmo che Lustri imprime a questo viaggio di cui sembra essere una sorta di narratore - reporter sulle tracce di un itinerario totalmente inventato. A questo proposito, il ritmo è cadenzato dalle tele dipinte che sono tutte osservazioni dirette degli accadimenti, proprio dei fotogrammi scattati da punti diversi (di spazio e/o di tempo) e il taglio che l'ingranditore ha poi dato alla tela finita segue anch'esso - strettamente ripetendolo - il momento in cui fu deciso di fissare l'immagine.
Narrare e riportare sono tuttavia due attività che si avvalgono di specifici differenti: - la parola e10 lo scritto, la macchina fotografica. La differenza sta anche nell'uso di fantasia inventiva consentito in diversa misura a chi utilizza le tecniche del racconto e della fotografia.
Ebbene Lustri compie una fusione delle possibilità derivanti dalle due tecniche e già questo è magia perché la fusione è “altro” e perché questa appare singolarmente riuscita nella finzione che è il risultato del complesso lavoro. Così il reporter ha scelto di ritrarre un modello (si tratta di un corpo maschile, giovane e nudo) colto in un set frutto d'immaginazione fantastica: - meglio, i luoghi in cui “abita” questo corpo sono inesistenti, inventati.
Ci troviamo, quindi, davanti a due situazioni legate insieme che mimano una situazione nuova (quella che Lustri intitola “viaggio”): il giovane viaggiatore (direi piuttosto un trasportato) è ritratto nelle sembianze reali e in atteggiamenti effettivamente vivibili; - I'ambientazione, le scene, gli spazi che s'aggirano attorno al soggetto noi li vediamo per la prima volta qui. Il viaggiatore è muto, sorride sorpreso, riflette stupito e assorto. La macchina fotografica lo ritrae cosi: - attenta anch'essa o sfocata quando l'attimo fugge fuori o dentro il personaggio.
Il personaggio, appunto. Come nei Grandi Cicli Pittorici il personaggio “mistico”, di cui si racconta l'evento straordinario (il viaggio), ha un aspetto indifeso e mite (la perdita del sudario, la sua nudità e la sua giovinezza) che a me ha fatto pensare all'età della Madre non modificabile nel trascorrere del tempo. Il personaggio di Lustri - cosi come egli lo figura - ha nello sguardo, nel modo di atteggiare le proprie membra, nei lineamenti del viso e nella magrezza del corpo una strana verginità che non si turba nemmeno a contatto della scena a lui d'intorno...